Ma ti sei vista

mercoledì 27 marzo 2019

Adesso che ho partorito posso dire che del parto non sapevo nulla

E’ difficile parlare di questi ultimi mesi senza cadere nel cliché del già sentito.
Non posso nemmeno negare però che mi sia cambiata la vita. Figuriamoci ammettere che effettivamente mi ritrovo in molti (moltissimi) luoghi comuni materni.
Eppure fin dall’inizio della gravidanza, all’urlo del “YOU ALL LIED BITCHES” ho sempre provato un certo “scollamento” tra quelle che erano le mie aspettative (dettate dal sentito dire) e quello che invece era il mio vissuto.
Adesso, che sentito dire e vissuto stanno combaciando, pare che abbia completato la mia metamorfosi da cinica crisalide a materna farfalla.
Ho raccontato, cercando di rimanere il più neutra possibile, il giorno o meglio i giorni del parto su Instagram ma mi ero promessa di lasciare una prova tangibile scritta (quanto si potrà considerare tangibile internet?) di quei due terribili giorni per scongiurare il rischio così popolare del “tanto poi si dimentica tutto”.
Ho cominciato questo post circa 2 mesi fa e dopo aver riflettuto ulteriormente a voce alta sulle Storie ho deciso che sì, una testimonianza scritta del parto va lasciata. Per tutte quelle che se lo dimenticano perché è stato traumatico e per tutte quelle che non hanno il coraggio di aprire il cassetto dei ricordi di quel giorno ma anche per dire a quelle che l’hanno vissuto splendidamente che non è esattamente per tutte così e non ci deve essere omertà nel riconoscerlo.
Io non voglio dimenticare nemmeno per sbaglio.
E non perché voglia rinfacciarlo a qualcuno prima o poi, nemmeno all’ostetrica presente in sala parto quel giorno (avrà sempre un posto speciale, lo so io dove), ma perché voglio davvero evitare di perdere nella memoria per qualsivoglia ragione anche solo un minuto di quei 2 interminabili giorni.
Sì, due giorni. Giunta alla fine del nono mese (cioè del decimo perché sono sempre 40 settimane) praticamente sui gomiti, con delle dolorosissime emorroidi (mai, mai, mai più metterò per scontato il mio ano, lo giuro), piena di aria come un pallone aerostatico al punto da emettere peti senza nemmeno rendermene conto, mi sono illusa che “la questione parto” fosse qualcosa da sopportare UN giorno.
Adesso che ho partorito posso dire davvero che del parto non sapevo veramente nulla.
Il corso pre-parto, come la società tutta a dire il vero, si concentra quasi esclusivamente su quello che accade dal punto di vista medico. Si parla di dilatazione, lacerazione, episiotomia, collo dell’utero, pavimento pelvico, contrazioni. Ma non si parla dei vari tipi di parto, dei metodi d’induzione, dell’ossitocina, dell’epidurale, dannata epidurale.

Ricapitolando, le acque mi si sono rotte il 16 ottobre. Fagiolino è nato il 18 ottobre.
Tutto quello nel mezzo è stato per me il parto.
Come sapranno quelle che hanno fatto il corso pre-parto, la rottura delle acque non comporta l’inizio immediato delle contrazioni. Non è nemmeno un momento doloroso: stavo dormendo e ho cominciato a sentirmi un po’ strana vicino alla coscia. Mi sono alzata e dal bagno ho avvisato Diego che “mi sa che mi si sono rotte le acque. Forse”.
Naturalmente è stato impossibile riaddormentarmi e anzi, mi sono alzata per andare a controllare sul mio personale manuale della gravidanza (Cosa aspettarsi quando si aspetta) se effettivamente era l’inizio della fine. Ricordavo che le perdite dovevano essere di un colore (rosato) ma non di un altro (scure, verdastre) ma non ricordavo quale.
La mattina mi sono fatta poi una doccia, ho aspettato un orario decente per chiamare la gine alla quale ho timidamente detto di avere delle perdite (così, stando sul generico, non volevo allarmare nessuno) e lei mi ha confermato di andare con calma in ospedale in mattinata. Alle 11 siamo andati quindi al Pronto Soccorso (l’ansia di dire al microfono dell’accettazione “mi si sono rotte le acque”) e dopo aver monitorato il battito in una delle sale parto (“ah, quindi è così una sala parto?”) ero ufficialmente ricoverata.

Quel monitoraggio in sala parto avrebbe dovuto suonarmi un po’ come un avvertimento perché c’erano un paio di donne che stavano partorendo nelle sale attigue e le loro urla mi hanno fatto compagnia mentre mi somministravano la flebo di antibiotico. Quei versi animali erano terrorizzanti anche alle vergini orecchie maschili. Erano urla di dolore disperato, suoni fortissimi e selvaggi . Io, nella mia stanzetta con i miei occhioni grandi spalancati continuavo a cercare la rassicurazione delle infermiere: “ma queste povere donne… non hanno l’epidurale forse?”
Ricoverata in camera mi confermano quindi che, non essendo partite le contrazioni, mi avrebbero “indotto” il travaglio.
Indurre il parto, che roba meravigliosa ho pensato. Quindi io posso starmene passiva che arrivi questo momento, ci pensa la medicina, la scienza, il progresso!
Indurre il travaglio ha significato quindi inserire un gel a base di ormoni in vagina per 3 volte, a distanza di 10-12 ore ogni volta. Alla seconda dose, il mercoledì mattina, sono partite le contrazioni ogni 10 minuti, fino alle 20 quando mi ammettono in sala parto con un rassicurante “da qua non esci senza il bambino”.

Le contrazioni del mercoledì quindi hanno pennellato la mia giornata come saette dolorose all’altezza del basso ventre, proprio nella piega tra il pancione e il pube.
Erano scosse elettriche e l’immagine che ne avevo nella mia testa era quella di IT con una sega circolare che cercava di tagliarmi in due. Ma se in questa fase la sessione di meditazione fatta allo Studio Bianco mi ha aiutato parecchio, per quella successiva in sala parto, non c’è stato santo in calendario che avrebbe potuto salvarmi.  Alle 8 di sera, al terzo gel, ormai la voce la stavo usando solo per chiedere ripetutamente l’epidurale.
L’anestesista quindi arriva e mentre mi infila l’ago nella schiena io ingenuamente penso “dai, è finita, da adesso è tutta discesa”.

SPOILER: NO.


via GIPHY


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giovedì 20 dicembre 2018

Il mio qua-trio Inglesina Aptica

Ricordo ancora quando a maggio lanciai un sondaggino su Instagram chiedendo consigli su che passeggino fosse più consigliato per me acquistare. Mi servirono almeno 24 ore per smaltire tutti i messaggi. Capii immediatamente che, come per la gravidanza, su pannolini e passeggini tutti hanno un’opinione, un po’ come la nazionale di calcio!
Tuttavia questo è inevitabile: pure io che ho solo 8 settimane sulle spalle sento di poterne parlare ora come una veterana. Innanzitutto, errore da dilettante: non si dice passeggino. Si dice TRIO. 

Nella mia ignoranza pre-parto passeggino/carrozzina erano la stessa cosa, ora invece so bene che si tratta di mezzi diversi. 

Ma andiamo con ordine: le opzioni sul mercato sono miliardi e dopo mesi in cui ho letteralmente (lo giuro) seguito per strada le mamme e le coppie con i passeggini più interessanti ho stilato la lista degli elementi che per me sarebbero stati imprescindibili (facile da manovrare e da aprire/chiudere, sicuro, solido e ovviamente carino). E’ vero, il “trio” è uno di quegli acquisti che si è costretti a fare prima della nascita, quando ancora non sai a che santo votarti, sei lucida dalle tue 7 ore di sonno e non immagini quante cose imparerai a tenere contemporaneamente in mano. Però serve immediatamente e per “immediatamente” intendo proprio che non puoi schiodarti dall’ospedale senza l’ovetto. E una volta a casa non hai idea di dove appoggiarlo se non hai almeno la navicella.
Da 2 mesi stiamo quindi usando il sistema quattro Aptica dell’Inglesina: si chiama sistema Quattro perché oltre al triplete classico (passeggino, navicella, ovetto) dispone anche di un supporto per poter utilizzare in casa la navicella (o l’ovetto) come culla separandola dal telaio. 
Il supporto base è la salvezza per i genitori che vogliono evitare la cosiddetta “Mossa del Ninja”: quella mossa P E R I C O L O S I S S I M A per la quale si tenta (invano) di trasferire il neonato, tanto faticosamente addormentato durante la passeggiata, dalla carrozzina (o dal seggiolino auto) alla culla in casa. Il supporto funge da salvatore perché anziché prelevare il bambino con il rischio di innescare la sirena, si attacca direttamente la seduta al supporto senza minimamente turbare il sonno al piccolo erede. 
Dovete capirmi, io non ho mai preso in mano una carrozzina in vita mia prima del 22 ottobre, giorno delle dimissioni dall’ospedale. Non siamo nemmeno andati nei negozi a provarne altri o a “farci un’idea” e la mia ricerca, come per ogni cosa, si è limitata alla vastità delle opinioni online. Le istruzioni sono servite per montare i vari pezzi ma il resto, da bravi millennials, è stato imparato direttamente sulla strada. 
In ordine cronologico, l’ovetto è stato il primo ad essere testato dalla nuova famiglia e vi spiego in che scenario c’è stato il “battesimo”: dopo 6 giorni in ospedale finalmente ci danno l’ok per le dimissioni, Fagiolino ha concluso la fototerapia e sta bene, io sono ancora dolorante ma piena di adrenalina all’idea di andare a casa e Diego… bhé, dopo 6 giorni in cui io e il piccolo eravamo nella sicure mani dell’ospedale, adesso doveva prendersi cura di noi. Sarà la tensione, sarà la paura di romperlo (Leonardo, non l’ovetto), ma credetemi: quella prima e necessaria operazione ci ha portato via quasi un’ora. Quando siamo riusciti a sentire finalmente il “click” di chiusura delle cinture di sicurezza eravamo SUDATI.“Oddio ma è così complicato?” No, non lo è e infatti adesso lo facciamo in continuazione, in pochi secondi e sempre durante una crisi di pianto. Però in quel momento, allacciare Fagiolino alla seduta dell’ovetto, assicurarsi che fosse in posizione corretta e al riparo da urti è stata la prima operazione da genitori che abbiamo fatto. La prima. Eravamo tesi come corde di violino, sembravamo sui carboni ardenti, con la fretta di lasciare la camera e (almeno per me) respirare un po’ di aria fresca dopo quei giorni così pieni e concitati. 
La sottoscritta nervosissima (“Io in 9 mesi ho fatto un essere umano, tu POTEVI LEGGERE LE ISTRUZIONI ALMENO”) e Diego nel panico che cercava un tutorial su You Tube. 
Adesso che sia io che Diego ci siamo calmati, è il supporto che utilizziamo più di frequente: un po’ perché è il più immediato e pratico (dovendosi spostare in auto è indispensabile), un po’ perché essendo il primo con il quale abbiamo familiarizzato è quello con cui abbiamo più dimestichezza.


La nostra prima passeggiata in 3 con un Leonardo evidentemente perplesso


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martedì 11 settembre 2018

Allenarsi in gravidanza, sì ma come? Boh!

Giunta ormai quasi al termine della gravidanza, ci sono molte cose sulle quali mi sono fatta un’opinione precisa e una di queste è la questione dell’allenamento in gravidanza.
In questi mesi è stato uno degli argomenti più frustranti per me che, pur non essendo di certo un atleta fitness d’elite di chissà quale livello, negli ultimi anni ho maturato una certa passione per lo sport.
E’ inevitabile che uno dei primi quesiti che mi sono posta quando ho scoperto di essere incinta sia stato “ok adesso come mi alleno?”. Ho scoperto, direi immediatamente, che le scuole di pensiero sono svariate.  Una donna, al momento della (prima) gravidanza, ha le idee piuttosto confuse e l’unico faro di conoscenza non è alfemminile.com (come spesso accade) ma il ginecologo. Tuttavia, con tutto il rispetto per la professione medica (e ne ho moltissimo), ho notato che è difficile trovare due medici concordi sulla stessa cosa. Relativamente all’esercizio durante la gravidanza ci sono svariate scuole di pensiero: influenzate dalla cultura, dallo storico personale e dalle conoscenze maturate sul campo dello stesso medico.
Tendenzialmente nessuno, in una gravidanza fisiologica (cioè senza patologie e rischi), sconsiglia di sana pianta l’esercizio fisico….MA!
Ma ognuno applica dei vincoli tutti personali, ecco qualche esempio:
- non correre/corri fino alla fine del I trimestre/corri semmai a partire dal II trimestre/sei hai sempre corso, continua a correre senza arrivare alla soglia di max sforzo
- non saltare/salta fino a che il pancione te lo consente
- non alzare pesi/ok i pesi ma attenzione al pavimento pelvico
- niente bici/bici ok
- non squat/ok squat
- hydrospinning sì/hydrospinning no 
- fit ball sì/fit ball no
e così via.
Insomma una donna che si trova con la voglia di fare, non sa più cosa fare perché sente tutto e il contrario di tutto e seppur con tutta la forza di volontà (che, come sapete, diminuisce con il passare dei mesi) si ritrova spaesata e alla fine, forse, non fa niente.
Un aspetto che ho trovato sottovalutato nella gestione della gravidanza dal punto di vista medico è l’emotività della donna attiva che d’un tratto si trova costretta a non poter fare più nulla perché senza una linea guida specifica. Parlo per me ma anche a nome di altre donne con cui ho avuto modo di interfacciarmi con più o meno lo stesso mio livello di allenamento.
Prendete me: praticavo training funzionale 3 volte a settimana e saltuariamente aggiungevo una seduta di hydrobike da Waterbeat o una sessione da Barry’s Bootcamp.
Passare da un regime settimanale di 3-4 sedute di fitness intenso a zero ha provocato uno scompenso emotivo considerevole. Altolà: non dico che non si possa fare nulla ma che per una persona abituata ad un determinato livello di fitness, ritrovarsi a fare le passeggiate o l’hatha yoga corrisponde letteralmente al N U L L A. 

Nella mia esperienza ho capito che l’attività fisica gioca un ruolo importante se non fondamentale nel benessere psico-fisico e non parlo limitatamente alla leva del mantenimento o della perdita di peso. Chi pratica regolarmente sport (qualsiasi sport: che siano i corsi in palestra, judo, tennis, volley, spinning, boxe, beach volley, danza etc) magari ha cominciato perché voleva appunto recuperare un certo livello di forma fisica e perdere peso o massa grassa ma presto si sarà reso conto che la costanza nell’attività porta benefici ben maggiori dell’esclusiva perdita di peso: si tratta di migliorare qualitativamente la propria vita perché si mangia meglio, si digerisce meglio (sì, parlo anche dell’intestino), si dorme meglio, si respira meglio, ci si muove senza affanno e con maggiore agilità. Tutto questo contribuisce a mantenersi più equilibrati dal punto di vista psicologico ed emotivo e, in una parola, più felici.
Gli ormoni sono delle potenti “DROGHE” prodotte dal nostro corpo e non è un caso che praticando attività fisica si stimoli la produzione di endorfine, gli ormoni del benessere (che combattono invece il cortisolo, il maledetto ormone dello stress).
Una donna in gravidanza è un fottuto cocktail di ormoni: tutti di fondamentale importanza alla crescita e allo sviluppo del bambino. Il bello è che uno dice “ormoni” ma spesso nemmeno sa di cosa sta parlando (e io sono sicuramente tra queste persone) ma mi permetto di dare la mia esperienza provata sul campo. Gli ormoni -della gravidanza- sono potentissimi e senza che tu nemmeno te ne accorga puoi essere la donna più sicura del mondo in un momento e trovarti sull’orlo di un attacco di panico poco dopo. Puoi raggiungere picchi di felicità che pensavi inimmaginabile e subito dopo sprofondare nell’abisso profondo della disperazione. Oppure puoi ritrovarti a piangere di continuo perché sopraffatta dagli eventi senza riuscire a fare nulla per riprenderti razionalmente. 

Nei primi 4 mesi di gravidanza mi ha seguito un medico ginecologo super simpa che pratica yoga da anni. Nel I trimestre mi ha consigliato di praticare yoga ovviamente e io, come ho già raccontato, ho avuto il mio bel daffare a trovare un centro che mi facesse fare qualcosa in quei benedetti primi 3 mesi. Dal II trimestre in poi sono stata seguita da una dottoressa fenomenale che però, se da una parte non ha ostacolato il mio desiderio di sport, dall’altra ha posto anche numerosi paletti (che ad una certa ho deciso, a mio rischio e pericolo, di ignorare).
Eppure, se solo si scavalla l’oceano e si va a New York le cose sembrano piuttosto diverse. Ce la ricordiamo tutte Charlotte che corre per Central Park pur sapendo di essere incinta e voglio vedere a quante donne in Italia il ginecologo ha dato l’OK per praticare running. Forse solo i medici sportivi alle atlete e perché loro sono -giustamente- seguite con una cura diversa rispetto a quella di noi donne non-atlete. 

Alysia Montano, a 34 settimane, che corre una 800m 

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lunedì 3 settembre 2018

Il terzo trimestre tra lacrime e fastidi

Giunta alla 31esima settimana, sono entrata in pieno diritto nel III trimestre: il trimestre della consapevolezza, il trimestre della visualizzazione, il Trimestre dei Trimestri.
Innanzitutto fatemi dire che contare la gravidanza in settimane o in mesi è un maledetto labirinto: da che mondo è mondo la gestazione dovrebbe durare 9 mesi, no? Eppure non appena rimani incinta il mondo medico si rivolge a te contando le settimane. Una pensa che sia cosa semplice, pure per un cervellino lento con i conticini come il mio, 9 mesi * 4 settimane = 36 settimane massime. Invece no, la gravidanza dura 40 settimane. Quindi, spetta un attimo, ma conti alla mano allora sono DIECI MESI!1!!
Sono dieci mesi raga, DIECI! CI HANNO SEMPRE FREGATO!

Sembro un serpente che ha inghiottito la preda

Quindi, ricapitolando, io che sono alla 31esima settimana ma mancano 2 mesi alla data del parto sono all’ottavo mese o sono al settimo? Tutto questo per dire che uno dei piaceri del III trimestre è la cosiddetta domanda di maternità flessibile da presentare all’INPS: chi come me non fa lavori che mettono in pericolo il bambino (cioè non devo stare troppe ore in piedi o avere a che fare con sostanze chimiche etc) può richiedere allo Stato di gestire i 5 mesi di maternità obbligatoria (solitamente divisi tra 2 prima del parto e 3 dopo), lavorando per tutto l’ottavo mese e usufruendo di 1 mese di congedo prima e 4 mesi dopo la nascita.
Io l’ho presentata qualche settimana fa e la cosa mi è costata sudore e fatica (come ogni cosa in questo periodo del resto) ma anche perché nel mio caso cadeva nel mezzo di agosto, con le chiusure degli uffici e i medici del lavoro in vacanza.
Ad ogni modo il mio moto di protesta va a all’INPS che calcola la maternità partendo dalla data di presunto parto e procedendo a ritroso in mesi mentre invece il resto del mondo medico calcola la gestazione in settimane partendo dalla data dell’ultimo ciclo. Tra un calcolo e l’altro ballano 4 settimane, esattamente quelle che mancano.
Ma polemichina sterile a parte eccoci a parlare del fantomatico ultimo trimestre da non mamma.
La prima cosa che mi sento di evidenziare è un fil rouge che per alcune prende tutta la gravidanza fin dal I trimestre: LA STANCHEZZA.
Sarà che la mia gravidanza è caduta proprio nel mezzo dell’estate, la stanchezza ha cominciato a diventare fedele compagna di vita a partire già dal 6° mese (giugno-luglio) e come avrete avuto modo di notare, abbiamo avuto un’estate “classica” con caldo afoso fin da giugno senza mai mai mai mollare fino a ferragosto. Amica Stanchezza ama manifestarsi in qualsiasi momento della giornata, spesso di mattina ma talvolta anche nel primo pomeriggio. Il sonno non è mai sufficiente anche perché spesso intervallato da risvegli notturni preparatori ai mesi a venire e visite al bagno per fare due insopportabili goccine di pipì.
Amica Stanchezza fa spesso coppia con Amica Spossatezza: se non è una, è l’altra.
Un giorno è vero e proprio sonno: sbadiglioni e lacrimoni fino alle 7 di sera. Un altro invece è proprio una sensazione di soffocamento spesso accentuata dal caldo che toglie il respiro.
Purtroppo va così: il corpo sta facendo gli straordinari, lavora di giorno e di notte alla produzione di un piccolo ma meraviglioso nuovo essere umano e questo richiede un lavorìo costante di tutta la fabbrica. Nel mio corpo tutti stanno facendo i doppi turni, non si dorme mai, la delivery del progetto è vicina e le aspettative sono altissime.


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mercoledì 4 luglio 2018

La gravidanza non è una passeggiata e chi dice il contrario mente

Se il post del primo trimestre l’ho scritto abbastanza tranquillamente durante quei primi tre mesi, il post sul II trimestre è qualcosa che ho cominciato quasi immediatamente al 4 mese, piena di furia rabbiosa da “ah ma quindi la gravidanza è così?” e poi ho mollato e ripreso più volte tra il 4° e il 5° mese nella speranza che ad un certo punto il mio stato d’animo cambiasse (spoiler: NO).
Ora che sono entrata nel 6° direi che ho aspettato a sufficienza prima di poter dire a pieni polmoni e a gran voce: AVETE SEMPRE MENTITO TUTTE!

Il I trimestre lo possiamo definire il trimestre della sorpresa: la notizia è ancora limitata a pochi intimi, non lo sa nessuno e se sei fortunata non hai nemmeno troppi disturbi.
Il II trimestre è quello della consapevolezza: la notizia ormai viene comunicata ai nonni, agli amici, ai colleghi, al datore di lavoro, a Instagram! Per le super magre la pancia comincia a vedersi a trimestre inoltrato, per chi da sempre come me vive sul filo del rasoio la pancia si vede quasi immediatamente.
I vestiti non fittano più e molto dipende anche da come è andato il I trimestre: se, come me, tutte le verdurine che prima si mangiavano a profusione hanno cominciato a dare la nausea e si comincia a bramare solo carboidrati, carboidrati, carboidrati soprattutto salati, salati, salatissimi (focaccia pomodoro e capperi, olive, cetriolini, pasta con il tonno, vitello tonnato etc) è anche facile capire come mai i vestiti di prima non fittino più già all’inizio del 4° mese.

Nel mio caso posso dire che questo trimestre si sta rivelando più difficile di quanto immaginassi.
Un piccolo elenco puntato delle gioie di questo periodo:
-          Il pregnancy glow è una bufala
-          Il mal di schiena
-          Le tette grosse e la pancia
-          I vestiti
-          La pancia dura
-          L’ipensensibilità e l’umore
-          La pressione

La bufala del Pregnancy Glow
Dal punto di vista fisico uno degli aspetti peggiori di questo momento di cui non manco di parlarne su Instagram è la dermatite (atopica) che è peggiorata parecchio rispetto al suo solito decorso estivo (d’estate non dovevo nemmeno più preoccuparmene) e ha cominciato a invadere zone sempre più fastidiose del corpo: le palpebre, il contorno occhi, le guance, le mani, le braccia, il collo. Il caldo di certo non aiuta nessuno, figuratevi me che ho una temperatura corporea più alta rispetto agli altri e sudo pure di più.
Di notte ho l’aria condizionata accesa da maggio e in ufficio mantengo una temperatura polare (tipicamente maschile) per la quale sto facendo ammalare di broncopolmonite quelle due povere cristiane che lavorano con me.
Nonostante la visita dalla dermatologa che altro non mi ha detto che “ci sono certe donne a cui in gravidanza la dermatite migliora e ad altre no” (e sti cazzi non ce lo metti?), gli 80€ di prodotti da lei consigliati non mi hanno portato alcun sollievo. Mi sveglio di notte per grattarmi, sento le mani pulsare dal calore, non posso toccare quasi niente perché la pelle si secca così tanto da aprirsi in micro taglietti, passo il tempo a grattarmi il viso e con disperazione e vergogna (ma perché poi?) mi ritrovo ad usare la crema cortisonica perché arrivo a momenti in cui sono talmente scoraggiata dal prurito che non so dove sbattere la testa. Purtroppo sono anche arrivata al punto che la crema delle emergenze non funziona più e rassegnata sto percorrendo la miriade di alternative e suggerimenti che mi stanno arrivando.
La cosa super fun della gravidanza è che questo genere di problemini sono comuni ma, almeno io, mi ritrovo in questa palude decisionale:
-     La dermatite migliora con il sole --> al caldo soffoco e dovrei evitare i raggi del sole per non incorrere nel  melasma gravidico (le macchie sul viso) --> Il calore dilata i vasi MA ho le varici e i capillari esplosi come miniciccioli nella gamba QUINDI dovrei stare al fresco
-    Vai in piscina a fare nuoto che annulli la forza di gravità e non senti il peso della pancia --> le ossa del bacino sono storte, ho fatto due bracciate a rana e ho sentito solo saette di dolore alla schiena in più il cloro peggiora le zone colpite da dermatite
-     Non ti truccare che meglio non avere nulla sul viso --> Già una è grossa e con le gambe gonfie (e cammina storta), in più grazie alle chiazze in viso non puoi nemmeno truccarti non ti dico la gioia di vivere di guardarti allo specchio

Le poche volte che ho goduto del sole al lago ho usato la protezione 50 sia sul viso che sul corpo ma su quali prodotti usare (e se usarli) i consigli (che ricevo da Instagram) si sprecano: tutti hanno una cremina omeopatica o una cremina per pelli ipersensibili che ha loro migliorato lievemente l’esistenza eppure a me sembrano tutte uguali e mi azzardo a comprarne poche perché tanto sono così scoraggiata che sembrano tutti soldi (e costano mica poco) sprecati.
Per ora quello che ho provato sulla mia pelle sono: crema toleriane La Roche Posay, Dermamid Pasta, Cetamol fluido e detergente. Risultati? Zero.
Al momento dopo una settimana di Halicar (crema fitoterapica che simula gli effetti del cortisone e ginecologa approved) (della quale mi sento di endorsare l’utilizzo), sto passando ad una serie di prodotti biologici in cui, ci tengo a dirlo, non ho mai creduto particolarmente ma ora che sono presa dalla disperazione proverei anche il piscio dei gatti se solo non rischiassi la toxoplasmosi (DOH!).

Nel mezzo del 4° mese ho cambiato pure ginecologo visto che il mio, per 200€ a visita, giunta alla fine del I trimestre ancora non mi aveva fatto esami del sangue completi, non mi aveva dato uno sguardo alle gambe (soffro di varici e ho già fatto una safenectomia nel 2016), non mi aveva mai misurato la pressione e nemmeno pesata. Per fortuna grazie alla raccomandazione di una collega ho trovato ora una dottoressa mille volte più gentile, disponibile, per la quale ringrazio il cielo ogni volta (e che in più lavora in ospedale, il che aiuta molto nello sbrigare quelle pratiche INPS che le risorse umane richiedono ma che sono una giungla burocratica you know what I mean).
E’ così quindi che abbiamo scoperto all’alba del 5° mese di essere ipotiroidee (daje) cosa per altro abbastanza comune in gravidanza (e figurati se mi mancava).


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